1.9.01

Luchino

La caratteristica di Luchino Visconti che più impressionava nella vita e sul lavoro, ripensandoci, era l'autorità. Per autorità - oggi si dice "leadership" - intendo il dono di farsi obbedire, ossia di ottenere che delle persone eseguano senza perder tempo a convincerle. E' una dote naturale e misteriosa e si manifesta in tanti modi. I direttori d'orchestra non eccelleno se ne sono sprovvisti, ma non ce ne sono due che la esprimano con gli stessi gesti. Bernstein, che saltava entusiasta come un derviscio e finiva fradicio di sudore, aveva sulle orchestre lo stesso ascendente del gelido Pierre Monteux che, a vederlo di spalle, sembrava non muovere nemmeno un dito. Visconti, che di rado alzava la voce, con la sua autorità era venuto al mondo, ma è difficile sostenere che l'avesse ereditata dai suoi lontanissimi antenati, i trecenteschi signori di Milano, i cui titoli, estinto il ramo principale, erano passati a un collaterale per concessione di Napoleone Bonaparte. Donde gli venisse non si sa, fatto sta che la emanava. Inizialmente la sperimentò sui cavalli, quando ricorrendo anche all'ipnotismo costrinse uno scarto di Tesio quasi zoppo a vincere il Premio Città di Milano. Poi passò agli attori, che infatti paragonava spesso ai quadrupedi, affermando che bisogna saperli prendere nel modo giusto, capire quale ha bisogno della frusta, quale delle carezze, quale dello zuccherino. Lo scopo ultimo di questa sua manipolazione del prossimo non era, per fortuna, la politica, bensì il teatro, il cinema, l'opera lirica, ossia il "ludus", il gioco: del resto il gioco va fatto col massimo impegno e la perfetta serietà. Sul gioco del teatro Visconti non scherzava affatto, esigeva la perfezione in tutto e da tutti. Se il genio consiste in una cura infinita dei particolari, Visconti lo possedeva. In ogni caso, sapeva sempre esattamente quello che voleva, persino la tonalità di un fischio di treno lontano, e non era possibile accontentarlo con un surrogato approssimativo. Lo si è definito un grande dilettante, in realtà era un profondo conoscitore di tutto quello di cui occupava. Per le scenografie sceglieva sempre e infallibilmente i tessuti più cari: i suoi finanziatori provarono qualche volta a scambiare i cartellini dei prezzi sui campionari, ma lui non abboccò mai. Anche i suoi collaboratori erano sempre tutti di altissimo livello, dall'aiuto al costumista al datore di luci; con lui però funzionavano ancora meglio che con chiunque altro. La sua autorità allargava il potenziale delle persone: se Visconti ti diceva di fare qualcosa che non ti eri mai sognato, obbedivi senza discutere, lui ovviamente ne sapeva più di te. Non dico che ci cogliesse proprio sempre. Una volta mi trovai con lui in visita alla villa che Marcello Mastroianni si era appena comprato in Lucchesia. Visconti (io veramente lo chiamavo Luchino, anche se gli davo del lei) approvava, suggeriva interventi e modifiche. A un certo punto si fermò davanti a due grandi cespugli ornamentali."Ma questi vanno potati!" disse "Datemi le forbici". Arrivarono dei forbicioni da giardiniere. Lui si mise a sforbiciare, ma si stancò quasi subito. Allora passò le forbici a me. "Continua tu" mi ordinò. Io ero un ragazzo di città e non sapevo distinguere una peonia da un carciofo. Aprii la bocca per obiettare, ma subito la richiusi e mi misi a sforbiciare, ligio. Quel cespuglio, che negli anni ho rivisto, non si è ripreso mai più. L'autorevolezza, talvolta l'imperiosità di Visconti mascheravano il fatto che in fondo era timido. Se qualcuno gli teneva testa poteva diventare violento, ma chi non avendo paura di lui riusciva a scherzarci e sdrammatizzare - succedeva di rado, ma succedeva - lo smontava. Ricordo un episodio poco prima della proiezione alla stampa di 'Le notti bianche'. Era il ritorno di Visconti a Venezia dopo lo scandalo di 'Senso', che anni prima era stato clamorosamente escluso dai premi per interventi politici, e il nuovo film era al centro delle attese. Visconti aveva appena controllato una copia campione ed era rimasto scontento di un particolare. Il momento clou del film è l'arrivo dello sconosciuto che la protagonista, di cui il solitario Mastroianni si innamora, aspetta tutte le notti. Lo sconosciuto era Jean Marais, che vedendo Maria Schell da lontano le diceva (con la voce di Giorgio Albertazzi) "Sei tu, Natalia?". Ora, Visconti trovava che quella battuta era anticlimax. Era venuta male; suonava fredda, sembrava che i due si fossero lasciati un minuto prima: era assurda. Rovinava tutto il film. I giornalisti non la dovevano sentire, bisognava cambiare, ridoppiare, fare qualcosa. Si creò, come succede in queste situazioni, una tragedia. Il produttore Franco Cristaldi tentò debolmente di dire che in tre ore, lì al Lido, non si poteva fare niente. Visconti chiese che almeno la battuta fosse tolta dalla colonna sonora: impossibile. E interrompere il sonoro per un momento? Chi è il proiezionista? Chiamatelo! Volavano i suggerimenti mentre Visconti sempre più convinto della necessità di neutralizzare la goffa battuta minacciava torvo addirittura di ritirare il film per non esporlo al ludibrio. Risolse tutto Ruggero Mastroianni, fratello di Marcello, grande montatore e romano pigro e sornione. Durante un momento in cui tutti sfiniti tacevano intervenne dicendo: "Conte, se vuole mi affaccio e dico: sono stato io". Luchino rise e si rassegnò. L'aneddoto spiega anche un po' la sua incrollabile predilizione, del resto ricambiata, per mia madre: mia madre sapeva come prenderlo, sapeva scherzare con lui, magari disorientandolo momentaneamente un tantino. Non sono sicuro per esempio che Luchino apprezzasse il fatto che mia madre battezzasse Modrone il gattino che lui ci regalò quando eravamo bambini (del tutto indifferente al fatto che mio padre detestasse gli animali: aveva deciso che il posto giusto per quel gatto era casa nostra, quale infatti risultò). Esigentissimo con tutti, Visconti lo fu con se stesso quando fu colpito da un ictus che lo lasciò con un braccio e una gamba semiparalizzati. In qualche modo, si rifiutò di ammettere quello che era successo - non lo aveva ordinato lui, quindi non esisteva. In segreto si curò caparbiamente, obbedì ai medici e si sottomise a spossanti esercizi di rieducazione, ma davanti agli altri continuò a lavorare come se niente fosse stato. Essendo la sua una attività comportante la messa in moto di grosse macchine organizzative, faticò a convincere chi doveva affidargliele; ma al solito ci riuscì. Pur di dimostrare di esserci, accettò che il produttore del film 'Gruppo di famiglia in un interno' fosse un uomo di destra in cerca di rispettabilità culturale come Edilio Rusconi (a chi glielo rimproverava disse, sacrosantemente, che i capitali non sono di sinistra); e insomma, si rimise all'opera, e alla maniera sua. Nemmeno per un secondo accettò di fare l'invalido. Con grandi traffici gli fu fatta venire dalla Svizzera l'ultima invenzione, una carrozzina elettrica che camminava da sé, ma lui ci si sedette una volta sola: doveva usare le sue gambe. A me e a mia moglie disse: "non mi avete mai invitato a casa vostra", e quando seppe che abitavamo un quarto piano senza ascensore il complimento diventò un ordine. Lo invitammo, e arrivò molto affaticato ma, al solito, del tutto padrone di sè, appoggiandosi a un bellissimo infermiere biondo, mangiò, bevve e fu cordiale con gli altri ospiti, un po' intimiditi. All'epoca viveva in un piccolo appartamento sulla collina Fleming, sempre pieno di fiori, continuando nel frattempo a arredare una grandiosa villa sui colli laziali dove sapeva benissimo che non si sarebbe mai trasferito. Da quell'appartamento il 17 marzo 1976, venticinque anni fa, se ne andò, avendo deciso di farlo, o questa fu la sensazione che diede. Aveva realizzato la 'Manon' di Puccini a Spoleto, un capolavoro di regia d'opera degno della sua leggiadra 'Traviata' alla Scala del '55 (io l'ho vista, mi ci portò mio padre una sera, il pomeriggio eravamo stati a San Siro per un Italia-Brasile 3-0, due gol di Virgili. In camerino la Callas ci disse civettando, con incantevole accento veronese e mirabile padronanza delle espressioni idiomatiche: "siete venuti fino a Milano solo per me? Non ci credo. Chissà quale altro uccello avete preso con questa fava!"). Aveva appena finito di girare un altro film, 'L'Innocente'. Poteva anche voltare pagina. Quando seppi che non c'era più piansi - gli volevo molto bene, e poi ero ancora giovane e ignoravo che ci sono persone che non muoiono. Luchino naturalmente la sapeva più lunga. Una volta un maldestro inserviente dell'Opera di Roma non lo riconobbe, e tentò di impedirgli di entrare dall'ingresso degli artisti. Il Conte lo trattò malissimo, l'altro si irrigidì. Quando l'equivoco fu chiarito, l'inserviente, che voleva avere l'ultima parola, gli disse: "si calmi, si calmi. E si ricordi che tutti dobbiamo morire". "Lei, forse" rispose Visconti "io no".

Masolino D'Amico


[Pubblicato su "La Stampa" del 20 marzo 2001 con il titolo 'Personaggi del '900. Un leader nato, un professionista impossibile da imbrogliare e un mago che si considerava immortale. Visconti, l'uomo che ipnotizzava i cavalli'].

[www.lastampa.it]

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